La diversità linguistica e la diversità biologica

Dieci anni or sono, Michael Krauss fece scorrere un brivido nella schiena ai linguisti, predicendo che quasi la metà delle circa 6000 lingue parlate nel mondo avrebbe cessato di esistere in capo a un secolo. Krauss, docente di linguistica all’Università dell’Alaska a Fairbanks, ha fondato l’Alaska Native Language Center per tentare di preservare le 20 lingue presenti in quello Stato, di cui solo due erano ancora insegnate ai bambini. Molte altre esistevano solo nella memoria di pochi parlanti anziani; il resto stava rapidamente uscendo dall’uso.

La ricerca linguistica solo dagli anni ‘70 in poi ha iniziato ad interessarsi alle lingue in via di estinzione. Studi ed analisi sempre più frequenti delineano un panorama alquanto allarmante.
Dati recenti confermano che con le prossime generazioni la maggior parte delle lingue scomparirà: secondo dati UNESCO entro il prossimo secolo l’80 % delle lingue morirà; delle 6.000 a 8.000 lingue solo 600 o 800 costituiranno la diversità linguistica del nostro pianeta, di cui la gran parte sarà rappresentata da lingue coloniali e nazionali. La crescente consapevolezza ha indotto numerosi linguisti e ricercatori alla definizione di un nuovo campo, che ha come oggetto centrale il pericolo di estinzione –ormai chiamato delle Endangered Languages.-, o del RLS – “Reversing Language Shift”, o della linguistica “preventiva o sostenibile”.

La relazione tra lingua, conoscenza e sapere ha intrinsecamente caratterizzato la storia dell’umanità. Negli ultimi anni la sensibilizzazione sul tragico impoverimento dell’ ecosistema ha diffuso, con considerevoli riscontri, un certo grado di consapevolezza.
Se messaggi di denuncia della scomparsa di specie animali e vegetali, influenzano la nostra crescita morale ed etica , poco si sa invece riguardo il collasso del nostro impianto linguistico-culturale, nonostante siano sempre più frequenti i riconoscimenti nelle politiche dei programmi de politiche delle Nazioni Unite e altre Organizzazioni Internazionali.
La sempre più incalzante e tragica morte delle lingue è un aspetto correlato in termini di cause ed effetto con l’impoverimento della diversità culturale umana. Come affermato da Alessandro Duranti nel suo Antropologia del linguaggio, il linguaggio deve essere inteso come “risorsa culturale…un insieme di pratiche culturali, sistema di comunicazione che non solo consente di creare rappresentazioni interpsischiche, ma aiuta i parlanti a farne uso nel costituirsi di atti sociale essenziali ”. Una lingua essendo un insieme di risorse simboliche, parte integrante del costituirsi del tessuto sociale , è anche “luogo” di una conoscenza, che oramai solo alcune popolazioni indigene sembrano più propense a voler preservare, poiché difensori di una stretta relazione spirituale e materiale con l’ambiente naturale. Il sapere tradizionale dei sistemi ecologici e le pratiche ad esso connesse sono preservati nella ricchezza semantica di una lingua stessa. La morte delle lingue infatti è un fattore importante che può contribuire alla distruzione della biodiversità. E’ stato dimostrato in molti studi comparativi, quanto alcuni termini utilizzati per esprimere determinate conoscenze biologiche in lingue indigene, non abbiano una possibile resa in lingue diverse. La linguista Skutnabb-Kangas Tove, riporta l’ esempio riscontrato in Messico secondo il quale alcune conoscenze su piante medicinali e loro utilizzi sono andate perdute quando i giovani indigeni sono diventati bilingui, attraverso un apprendimento dello spagnolo senza l’utilizzo della loro lingua madre. Poiché la variante dominante non prevede la traduzione adatta alla resa di molti termini, i saperi non sono stati trasferiti nella lingua acquisita dalle nuove generazioni.

Seguendo una eco-visione eco la varietà linguistica intesa come patrimonio concettuale “vivente”, diventa anch’essa parte integrante di un ecosistema in pericolo, minacciato dallo sterminio che l’uomo stesso ha messo in atto. Ma riconoscere il naturale cammino delle specie non deve giustificare un atteggiamento arreso e indifferente dinanzi alla terribile crisi di estinzione che sta vivendo l’umanità. Se il mondo occidentale sembra ormai destinato alla riduzione e all’impoverimento, tanto nei suoi significanti che nei suoi significati, alcune popolazioni chiamate minoritarie, locali, indigene (questioni di terminologia sono sempre molto accese) intensificano i loro sforzi per riuscire a resistere a qualsiasi forma di assimilazione, anche attraverso la difesa delle loro lingue: sedi e mezzi della trasmissione della conoscenza tradizionale.
La difesa della propria identità linguistica e culturale non deve essere interpretata come desiderio d’ isolazionismo o di “intergralismo”, bensì come strumento necessario a molte popolazioni, per lungo tempo annichilite da imposizioni esterne, per avviare un processo endogeno di sviluppo, sulla base della propria ricchezza ambientale e culturale.

Fortunametamente sono tanti e sempre più diffusi i progetti di revitalizzazione linguistica. E nuemerosi i loro successi devono considerarsi per non non sfavorire la desacralizzazione incoraggiante di uno scenario fin troppo apocalittico, – e per spingere sempre più la dedizione della linguistica più “accademica” ad un attivismo schierato che operi a favore e in nome del multilinguismo e della “diversità bioculturale”:

Nel prossimo numero affronteremo un caso di revitalizzazione linguistica effettuato attraverso un progetto pedagogico e sociale i cui effetti hanno avuto riscontro immediato presso la comunità indigena in questione.

di Sonia Polliere

Un pensiero su “La diversità linguistica e la diversità biologica

  1. Maria Rosaria Orlando

    Da qualche tempo, ho una rubrica in un giornale locale. È un mio piccolo contributo alla diversità linguistica.

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