1) Occorre anzitutto premettere che dal punto di vista storico la lingua ha acquistato peso e rilevanza politica da quando si è formato ‒ figlio della democrazia e della Rivoluzione francese ‒ lo Stato nazionale moderno, a cui tutti i cittadini sono chiamati a partecipare non solo come loro diritto, ma come loro dovere: il che rende necessaria, e quasi obbligatoria una loro «omogeneità» che fa sentir come illegittima e anti-nazionale ogni diversità linguistica (e porta ad affermare, anche nei rapporti internazionali, la superiorità della lingua statale).
2) Occorre altresì premettere che, dal punto di vista filosofico, il linguaggio è al tempo stesso lo strumento della ragione e dell’intelligenza da un lato, e della creazione poetica e letteraria dall’altro, sì che l’uomo è uomo, ha una cultura, ha una storia, ha una comunità in cui è enraciné grazie alla lingua che parla.
3) Quanto chiarito ai punti 1) e 2) ci aiuta a comprendere perché il linguaggio ha una funzione così importante nella politica. Non solo, come si è accennato, le autorità nazionali, per rinforzar la coesione del proprio Stato, favoriscono con ogni mezzo la lingua ufficiale a danno delle lingue e culture minoritarie, che rischiano così l’estinzione; ma, al tempo stesso, gl’individui più colti, le classi sociali dominanti e, in ambito internazionale, le grandi potenze che riescono a imporre la propria lingua possiedono meglio e più profondamente questa, che per i loro cittadini è quella materna, ed esercitano anche in tal modo il loro dominio.
4) A un esame attento, pertanto, le cause reali della dominazione di una lingua sulle altre risultano risiedere non in una pretesa superiorità linguistica di questa, che renderebbe quell’idioma più adatto di un altro a esprimer le creazioni della cultura, ma in una disuguaglianza politica (la posizione dominante dello Stato, o degli Stati, e popoli che parlano quell’idioma), così come, per le lingue delle minoranze, nella tendenza del¬l’ideo-logia stato-nazionale a promuovere attivamente la soppressione di ogni diversità culturale rispetto a ciò che è, o ci si immagina sia, o si vorrebbe che fosse l’identi¬tà nazionale.
5) È pertanto con mezzi politici che si può sperare di modificare un tale stato di cose, e cioè, specie in Europa:
a) grazie all’istituzione, in seno a ciascuno stato nazionale, di contro-poteri degni di questo nome a livello regionale, specie relativamente ai gruppi etnici (federalismo infra-nazionale);
b) grazie all’istituzione, al di sopra dello stato nazionale, di una Unione federale europea capace di:
– limitare, a proprio vantaggio, le competenze dello stato nazionale;
– avere, per la sua stessa natura, una vocazione pluralista (plurilingue e pluriculturale);
– essere dunque capace di promuovere attivamente la diversità delle lingue e delle culture, e cioè il pluralismo che costituisce l’essenza dell’anima europea;
c) ridisegnando, in una seconda fase, i confini degli Stati membri dell’Unione, che dovranno esser non gli Stati nazionali attuali, ma Grandi Regioni a definir le quali il criterio monoetnico dovrà esser prevalente;
d) attribuendo da un lato a queste Regioni (e sub-regioni) risorse proprie adeguate e garantendo dall’altro una perequazione delle differenze ‒ che oggi in seno al Mercato comune tendono a crescere ‒ fra regioni più e meno sviluppate, grazie ai meccanismi di fiscal federalism, quali sono stati proposti, nell’ambito della CEE, dal Rapporto MacDougall.
6) Le lingue minoritarie e senza Stato non sono soltanto sotto l’egemonia delle lingue nazionali e statali. Una minaccia molto più grave e immediata pesa sulle une e sulle altre: la glottofagia dell’inglese, che sta divenendo lingua franca universale de facto.
Anche la causa di questo fenomeno è politica: l’egemonia americana. La situazione non può dunque esser modificata, anche in questo caso, se non con mezzi politici: l’istituzione immediata ‒ o sarà troppo tardi ‒ di uno Stato Federale Europeo che abbia un peso paragonabile a quello degli Stati Uniti, e l’adozione da parte di tale Stato, come lingua franca europea, di una lingua pianificata e neutra: che, non essendo materna per nessuno, non eserciterà l’effetto distruttore proprio di ogni lingua viva posta in posizione egemone.
L’Unione politica dell’Europa appare pertanto come un préalable assoluto da un duplice punto di vista: per liberare le etnie e lingue minacciate dalla loro condizione attuale d’inferiorità e d’alienazione, e per salvare, con queste, le lingue e culture nazionali dall’etnolisi causata dalla marée noire dell’inglese.
Riassumendo e completando quanto detto fin qui:
Fra le minacce a cui è oggi soggetta l’Europa (islamizzazione, rischio ecologico) una delle più gravi, e delle meno avvertite, è quella costituita dalla progressiva diffusione del-l’in¬gle¬se come lingua franca europea e universale, certo per il momento senz’alternative, ma alla lunga destinata a erodere progressivamente le lingue nazionali, fino a trasformarle in dialetti, anticamera dell’estinzione, e quindi a porre a rischio la pluralità delle nostre culture, ridotte ad appendici di quella anglo-americana.
La soluzione, se non sarà troppo tardi, sarà il ricorso come lingua franca, anzitutto in Europa, a una lingua «pianificata» (l’Esperanto è la sola pronta per l’uso), che, non essendo materna per nessuno, non avrà l’effetto distruttivo che ha oggi l’inglese.
Il mezzo, indispensabile, per render quella soluzione non utopistica è la fondazione di uno Stato federale europeo: Stato a cui sarà progressivamente indispensabile una lingua comune che ponga tutti i suoi popoli su un piede di parità: lingua franca destinata, in un avvenire più lontano, a divenir lingua franca universale.
di Andrea Chiti Batelli