Da circa trent’anni l’Unione europea (UE) cerca di creare un sistema unitario di riconoscimento e registrazione dei brevetti valido automaticamente su tutto il territorio dell’Unione senza bisogno di ulteriori convalide nei vari paesi membri. La questione del regime linguistico da adottare, tuttavia, è sempre stata uno dei maggiori punti di disaccordo fra stati. Nell’insieme l’utilizzo di un numero limitato di lingue permetterebbe una riduzione delle spese di traduzione per l’ottenimento dei brevetti, ma tale risparmio si ripartirebbe in modo molto diverso fra imprese a seconda del regime linguistico adottato. Ciò potrebbe alterare indirettamente la competitività relativa delle aziende e dei paesi.
Il regime linguistico proposto dalla Commissione nel luglio 2010 si fonda sul trilinguismo. Le lingue nelle quali sarà ammesso presentare le domande di deposito dei brevetti sono francese, inglese, tedesco (anche se nel dicembre 2009 si era arrivati a un accordo politico per cinque lingue, compreso lo spagnolo e l’italiano).
Un regime linguistico trilingue comporterebbe una grave distorsione della concorrenza sancita dai trattati europei, oltre a una palese violazione del principio del multilinguismo europeo. Secondo i dati disponibili, infatti, l’ottenimento di un brevetto in francese, tedesco e inglese costerebbe in media almeno il 28% in più a una piccola o media impresa italiana rispetto a una sua concorrente austriaca, irlandese o francese.
Il governo italiano e spagnolo si sono opposti al regime trilingue, e hanno proposto in alternativa un modello bastato solo sulla lingua inglese, adducendo a motivazione che essa “metterebbe tutti sullo stesso piano”. Falso. Un regime monolingue non risolverebbe affatto il problema della distorsione della concorrenza, perché l’ottenimento di un brevetto solo in inglese costerebbe in media almeno il 31% in più a una piccola o media impresa spagnola rispetto a una concorrente britannica. Inoltre si verificherebbe una situazione illogica per cui diventerebbe più costoso ottenere un brevetto comunitario per un’impresa spagnola che per un’impresa statunitense o canadese che si affacci sul mercato europeo.
Di fronte all’impossibilità di raggiungere un accordo entro dicembre 2010, 12 paesi dell’UE (Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Lituania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Slovenia, Svezia e Regno Unito) hanno deciso di dare avvio alla procedura della “cooperazione rafforzata” per il brevetto trilingue, che consente di aggirare il vincolo dell’unanimità in diversi ambiti di politica europea. Si è trattato di una forzatura. È la seconda volta nella storia che tale procedura, che dovrebbe essere eccezionale, è stata accettata.
La Commissione europea, promotrice del brevetto unico, ha dato ovviamente il suo via libera alla cooperazione rafforzata, e il 15 febbraio 2011 il Parlamento europeo ha approvato con 471 voti a favore, 160 contrari e 42 astensioni il ricorso a tale procedura.
Il Consiglio dei Ministri dell’UE (“competitività”) è chiamato a riunione il prossimo 8-9 marzo per decidere se approvare la procedura di cooperazione rafforzata. La partita non è dunque ancora finita, anche perché si aspetta una sentenza della Corte di Giustizia europea sulla compatibilità fra il sistema giurisdizionale per il brevetto previsto e i trattati UE. La sentenza è prevista per l’8 marzo, e secondo una nota del 14 febbraio, degli avvocati generali della Corte europea di giustizia sono già giunti alla conclusione che i due sistemi sarebbero incompatibili. Una sentenza sfavorevole al trilinguismo potrebbe fare saltare l’accordo di cooperazione rafforzata, e ci sono quindi ancora dei margini di manovra.
È necessario quindi che il mondo politico si mobiliti per evitare che passi un regime linguistico iniquo e distorsivo della concorrenza. Una semplificazione dell’attuale sistema è auspicabile perché consentirebbe una riduzione complessiva dei costi di traduzione. Oggi in media convalidare un brevetto in 27 stati costa € 29.500. Tuttavia la riduzione dei costi andrebbe prevalentemente a vantaggio dei paesi di lingua francese, tedesca e inglese nel caso di regime trilingue. Non vogliamo perorare la causa di un’oligarchia linguistica fondata su cinque lingue. Essa, infatti, non sarebbe più giustificabile di un’oligarchia fondata su tre. È necessario, invece, riflettere su di un sistema di misure di accompagnamento stabili che correggano gli squilibri derivanti dal privilegiare una o qualche lingua ufficiale della UE sulle altre: ad esempio,
1. Specifici trasferimenti finanziari compensativi. È necessario creare un “fondo europeo per la traduzione dei brevetti” finanziato con specifici da contributi versati dai paesi le cui lingue sono privilegiate. Se tre devono essere le lingue, allora che le imprese (e gli stati) anglofoni, francofoni e germanofoni paghino degli emolumenti extra che servono per coprire le spese di traduzione delle altre imprese.
2. Appoggiare un regime linguistico che prevede sì tre lingue procedurali, ma con l’obbligo di tradurre le “rivendicazioni” (cioè la sezione più importante del brevetto che definisce l’ampiezza della protezione giuridica accordata al brevetto stesso) nelle altre 20 lingue ufficiali dell’Unione. Questo regime più che dimezzerebbe il costo attuale, garantendo nel contempo una maggiore equità.
3. Un sistema di rotazione linguistico e/o l’utilizzo tecnico di una lingua neutra e non ufficiale (per esempio l’esperanto) come lingua ponte per le traduzioni.
4. Una combinazione delle soluzioni proposte.
Un regime linguistico equo non è solo una questione di giustizia linguistica, ma anche di tutela della libertà di impresa e della libera concorrenza.